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Pronto chi parla? Ma, soprattutto, chi ascolta?

di Marco Biondi

L’avevo minacciato ed è arrivato: ecco il mio articolo sulla comunicazione “urbi et orbi”. La domanda che molti si pongono è: come mai le trasmissioni televisive continuano ad essere sempre uguali a se stesse e non si rinnovano? E la comunicazione politico/sociale, intesa come le fonti alle quali si informano gli italiani, è sempre la stessa o come è cambiata?

Nel mio precedente articolo, avevo dimostrato, dati ISTAT alla mano, quanto il nostro stia diventando un Paese di vecchi.

Se è vero che degli oltre 59 milioni di italiani, circa 7 milioni e mezzo sono al di sotto dei 14 anni, i restanti 51 milioni cosa si aspettano dalla comunicazione e dai media?

La prima considerazione, importante, da fare è che oltre il 70% degli italiani dai 15 anni in su ha più di 45 anni. Con ciò non voglio dire che a 45 anni si è vecchi, ma è abbastanza plausibile pensare che chi ha più di quell’età sia cresciuto con format televisivi e di comunicazione tradizionali. Chi invece si posiziona tra i 15 e i 44 anni è probabile che utilizzi prevalentemente e preferibilmente canali alternativi.

Una breve riflessione in proposito: dieci anni fa il fenomeno “social” era agli albori e l’unico canale a pagamento era SKY, destinato a una fascia medio alta di popolazione e quindi marginale.

Negli ultimi dieci anni si sono affermate le piattaforme di streaming (Netflix, Prime, Dazn, Disney+, Infinity, Paramount) che consentono la fruizione di contenuti on-demand ad ogni ora del giorno e della notte, ed è diventata consuetudine, per molti, informarsi attraverso i canali social. E’ triste, ma è così! Ma questo perché accade?

La TV generalista ha certamente perso audience. Ho scelto a caso alcuni dati di ascolto: il 5 Dicembre 2011 – sabato sera, prime time – c’erano oltre 26 milioni di spettatori sintonizzati sui canali nazionali. Sabato 22 Ottobre 2022 (prima dei mondiali di calcio) gli spettatori sono stati meno di 15 milioni. Questo significa che la TV generalista oggi ha alcuni limiti oggettivi che dieci anni fa non aveva. Meno spettatori significano meno introiti pubblicitari e quindi meno fondi da investire nel palinsesto.

Se poi consideriamo che gli spettatori sono per la grande maggioranza over 55, capiamo che il gradimento possa andare maggiormente verso trasmissioni più tradizionali.

Questa è l’unica spiegazione che possa giustificare l’immutabilità di certi programmi. Da anni assistiamo attoniti ai vari Grande Fratello, Isola dei famosi, Amici, Chi l’ha visto, Domenica In, Ballando con le stelle, ecc. ecc. Immutabili, realizzati prevalentemente con partecipanti sconosciuti o decotti, quindi gratis, e imperniati su temi che sembrano specificamente studiati per le famose casalinghe di Voghera, in un’epoca che sta gradualmente vedendo scomparire inesorabilmente la categoria delle casalinghe.

Se poi andiamo sulla comunicazione socio-politica, assistiamo a un certo scambio di dicasi marchette, o ritenute tali, tra partiti e peones, con “spettacoli” basati sul pettegolezzo, sul ciarpame più simile al mercato del pesce che non a confronti politici. E sempre con le stesse facce, come se alcuni partiti avessero acquisito per usucapione il diritto di essere rappresentati da “opinionisti” ai quali manca solo la bandiera del partito che sostengono e da giornalisti che fanno le domande che i loro editori amano che vengano rivolte ai politici di turno, senza non solo ascoltarne le risposte, ma spesso senza concedere nemmeno la possibilità di rispondere, sovrapponendo alla voce del politico nuove domande “ad effetto”.

Se questa è la televisione, non ci si può meravigliare per l’emorragia di ascolti degli ultimi anni.

Per concludere questa disamina, se guardiamo alla “carta stampata”, che è sempre meno stampata e sempre più telematica, scopriamo come esistano sempre meno testate “indipendenti” dalla politica e, purtroppo, sempre meno “giornalisti” liberi di esprimere le proprie opinioni. Oggi sono spesso sostituiti da “dipendenti” che servono per la diffusione delle opinioni dei partiti dei quali gli editori sono riferimento.

Di Enzo Biagi, Indro Montanelli, Corrado Augias (per citare i primi tre che mi vengono in mente) non se ne vedono più. Giornalisti che, pur avendo proprie opinioni politiche, erano capaci di esprimere giudizi critici senza sottoporsi al veto dell’editore.

Montanelli scappò dal “Giornale” fondato da Silvio Berlusconi, quando ebbe la certezza che non sarebbe stato libero di esprimere le proprie opinioni. Biagi fu cacciato dalla Rai, sempre su richiesta di Silvio Berlusconi, perché si prendeva la libertà di dire come la pensava. Oggi l’editoria è sempre di più nelle mani dei partiti perché è solo la politica che consente la sopravvivenza di quasi tutte le testate grazie ai contributi di Stato. Il concetto democratico di libertà di espressione è stato affossato da ragioni di bilancio.

Se questa è la drammatica situazione che viviamo, non ci possiamo meravigliare se i giovani (e i semi-giovani) trovino più rassicurante leggere le notizie su Facebook e su Instagram piuttosto  che sorbirsi i pipponi di analisi politiche finalizzate ad una campagna elettorale permanente.

Servirebbe un ripensamento globale sulla comunicazione finalizzata alla libera circolazione delle idee, come sancito dalla Costituzione.

A partire dal canone televisivo che dovrebbe essere finalizzato proprio al rispetto di questo diritto, ma è inesorabilmente diventato solo una forma di finanziamento del carrozzone televisivo pubblico. Ma manca la classe politica che sia in grado di affrontare e risolvere questa grave limitazione repubblicana. Non è interesse risolverla e quindi “lasciate ogni speranza o voi che vi aspettate di conoscere la verità”. Verità che non arriverà di certo nemmeno da Facebook né tanto meno da Tik Tok.  E se i cittadini sperano di formarsi una opinione politica da portare alle urne con questa comunicazione, la prospettiva è sempre più cupa.

Finirà che dovremo rivalutare gli “speakers corner” inventati in Inghilterra un paio di secoli fa che possono ritrovare vita attraverso i social. Potrebbe essere utile ascoltare da quei pochi politici competenti quali sarebbero le ragioni per le quali chiedono il voto. E capire, nelle pieghe del discorso e dai singoli curricula, se ci stanno prendendo in giro o se possono meritare la nostra fiducia.

La conclusione è mestissima: come siamo ridotti male, amici miei.

 

(26 gennaio 2023)

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