di Fabio Galli
Parlare di Robert Mapplethorpe significa entrare in un mondo in cui la bellezza è sacra, il desiderio è rito, e la fotografia diventa uno specchio nero — lucido, profondo, crudele a volte — in cui l’arte si guarda e si giudica da sola. Approfittiamo allora della splendida occasione offerta dalla mostra alle Stanze del Vetro a Venezia (aperta fino al 6 gennaio 2026), per immergerci a fondo nella sua opera. Non solo dieci cose da sapere, ma dieci percorsi, dieci stanze dell’anima attraverso cui Mapplethorpe ci parla ancora.
1. Il corpo come icona, e come enigma
Per Mapplethorpe il corpo non è mai stato solo corpo. Non era solo pelle, muscolo, posa: era altare, monumento, problema. Le sue fotografie sono popolazioni di statue viventi. In particolare il corpo maschile — nella sua pienezza erotica e nella sua fragilità strutturale — è il vero oggetto di culto. Mapplethorpe lo isola, lo cesella con la luce, lo interroga come un archeologo interroga una reliquia. È un corpo che parla senza voce, che mostra la perfezione e insieme la distanza da ogni normalità.
2. L’estetica classica del proibito
Ciò che rende così disarmante la sua arte è il contrasto perenne tra la purezza della forma e la potenza provocatoria dei contenuti. Gli scatti più osé — feticismo, sadomasochismo, nudità spinte — sono composti come nature morte seicentesche, con una simmetria e un rigore degni di Piero della Francesca. Il bianco e nero, per lui, non è una scelta stilistica: è un’etica. Con quel mezzo sottrae ai corpi ogni cronaca, ogni volgarità, e li consegna alla dimensione del mito.
3. Patti Smith: la sorella, la sposa, la testimone
Tra i legami più importanti e poetici della sua vita, c’è quello con Patti Smith. Si incontrarono a New York negli anni Settanta, due giovani spiantati pieni di visioni. Vivere insieme significava condividere tutto: l’arte, la povertà, l’identità in divenire. Patti, nella sua autobiografia “Just Kids”, ha raccontato quell’epoca come un lungo sogno affamato, fatto di amore e metamorfosi. Lei scopriva di essere poeta e rocker, lui di essere fotografo e omosessuale. Si aiutavano a rinascere, ogni giorno.
4. La celebrazione del maschile
Mapplethorpe ha ridefinito l’iconografia del maschio. Non più eroe epico o figura idealizzata, ma corpo reale — erotico, nero, queer, muscoloso, sudato. Fotografava spesso uomini afroamericani, bodybuilder, amanti occasionali: e ogni ritratto era insieme un’adorazione e una provocazione. Mai voyeurismo, mai compiacimento. Solo sguardo lucido, diretto, quasi religioso. Mapplethorpe voleva che il desiderio si vedesse, ma che non fosse mai spiegato.
5. L’arte come scandalo e resistenza
La retrospettiva “The Perfect Moment” del 1989 fu uno spartiacque. Esposta postuma, suscitò uno scandalo violento. In un’America già scossa dalla crisi dell’AIDS e da una nuova ondata conservatrice, quelle immagini vennero viste come una minaccia morale. Mostrare un pene eretto o un gioco BDSM in una cornice da museo significava infrangere un tabù radicale. Il processo culturale che ne seguì fu lungo, doloroso, ma fondamentale per il riconoscimento della libertà espressiva dell’arte queer.
6. I fiori: erotismo vegetale
Nel lavoro di Mapplethorpe non ci sono solo corpi. Ci sono anche fiori — e sono forse la parte più segreta e intensa del suo lavoro. Le sue fotografie di calle, orchidee, tulipani hanno una carica erotica spiazzante. Sembrano organi sessuali, simboli fallici, vulve dischiuse, tutto e niente insieme. Come in Georgia O’Keeffe, il fiore diventa una metafora carnale e spirituale. Anche qui, la composizione è ipercontrollata: fondo nero, luce radente, silenzio assoluto. È come se ogni petalo fosse il volto di un amante.
7. Lo studio come tempio
Per Mapplethorpe il gesto fotografico non era mai casuale. Lo scatto era il risultato di un rito: studio, preparazione, allestimento, luce perfetta, posa studiata. Ogni soggetto entrava in uno spazio sacro, e il fotografo diventava sacerdote. Nulla è improvvisato nei suoi lavori: anche la spontaneità è costruita con maestria. Il suo studio newyorkese era laboratorio alchemico, confessionale, boudoir. In quegli ambienti si mescolavano il glamour e l’abisso, la tecnica e l’istinto.
8. Le polaroid: l’origine e l’urgenza
Mapplethorpe iniziò con le polaroid, negli anni in cui viveva con Patti Smith al Chelsea Hotel. Quegli scatti, più sporchi e immediati, sono un laboratorio di libertà. Sono fotografie impastate di vita, di strada, di poesia. Ritraggono amici, amanti, oggetti strani, piccole vanità quotidiane. In quelle immagini si vede il seme del futuro: la ricerca della composizione perfetta, ma anche la gioia dell’errore, del lampo improvviso. Una bellezza ancora incerta, ma già folgorante.
9. L’ombra della malattia, la luce dell’opera
Negli ultimi anni, Mapplethorpe sapeva. La malattia avanzava e lui lavorava con una furia nuova, una lucidità estrema. Voleva lasciare un’opera compiuta, totale, inconfutabile. Ogni scatto diventava un testamento. Fotografava se stesso, il proprio volto emaciato, gli amici scomparsi, la pelle che cambiava. Ma nulla era pietismo. Solo uno sguardo impietoso e altissimo, come se anche la morte fosse una variazione sul tema della forma.
10. La Fondazione e l’eredità
Prima di morire, nel 1989, Mapplethorpe istituì la sua Fondazione. I proventi del suo lavoro dovevano servire a sostenere l’arte contemporanea e la ricerca sull’HIV. È un gesto radicale di cura e di memoria. Oggi la sua opera continua a vivere nelle collezioni più importanti del mondo, e la Fondazione mantiene vivo non solo il suo nome, ma il suo gesto artistico e politico. Fotografare, per Mapplethorpe, era sempre un atto di giustizia visiva.
La mostra veneziana alle Stanze del Vetro si annuncia come un viaggio dentro questo universo così lucido e abissale. La scelta della trasparenza — del vetro — come metafora non è casuale: Mapplethorpe ha sempre cercato la nitidezza assoluta, anche quando i soggetti erano scandalosi. È una mostra che chiede di guardare, davvero, e non distogliere mai gli occhi.
Lasciamoci alle spalle ogni prudenza e varchiamo del tutto la soglia dell’universo mapplethorpiano, dilatando lo sguardo come lui faceva con la lente: affilata, cerimoniale, sensuale e irrimediabilmente lucida. Il testo si snoderà come un corpo nudo che ruota davanti all’obiettivo, rivelando via via nuove porzioni di sé, nuove superfici, nuove vene d’ombra.
Nel ventre di vetro: l’ingresso nel tempio Mapplethorpe
Entrare nella mostra delle Stanze del Vetro è come infilarsi nella penombra di un tempio non dichiarato. Non c’è incenso, ma luce tagliente. Non c’è altare, ma corpi. E Mapplethorpe è il sacerdote oscuro e ossessivo che officiante fotografa e trasfigura. L’architettura trasparente e rarefatta dell’isola di San Giorgio Maggiore, così perfettamente diafana, si offre come contro-altare alla gravità delle immagini: la materia è il corpo, e la cornice — stavolta — è fatta di luce e aria. L’allestimento è essenziale, silenzioso, come una stanza d’ascolto. E le immagini, pur nel loro rigore, bruciano.
Non si tratta soltanto di una retrospettiva. È piuttosto una lunga confessione pubblica, o un diario visivo interamente scritto con la carne altrui. Una carne che si fa marmo o fiore, metallo o specchio, ma mai solo pelle. Le fotografie, selezionate con cura curatoriale e poetica, non seguono un ordine meramente cronologico. Piuttosto, ci si muove tra temi, ossessioni, corrispondenze: una geografia del desiderio.
Il nudo maschile: carne e forma
Quando si varca la soglia delle nude maschili, si entra nella vera camera oscura dell’anima mapplethorpiana. Lì il corpo dell’uomo diventa archetipo, non soggetto. C’è un rigore quasi liturgico nelle pose, un equilibrio michelangiolesco che scompone e ricompone la fisicità come fosse geometria sacra. Ma non c’è mai pornografia, anche se le immagini possono essere dichiaratamente erotiche, talvolta violentemente esplicite.
Mapplethorpe non cerca lo shock. Cerca la purezza del gesto. L’erotismo, per lui, è forma assoluta, controllo. Ogni scatto è il risultato di una costruzione maniacale della luce, della composizione, del contrasto. Il desiderio non è lasciato esplodere: è congelato, inciso, immortalato come se fosse una statua greca trafitta dalla contemporaneità.
Alcuni dei soggetti ricorrenti — uomini neri muscolosissimi, spesso ritratti con frontalità ieratica — pongono interrogativi profondi sul rapporto tra desiderio e potere, bellezza e feticismo, bianco e nero (sia in senso fotografico che razziale). Ma Mapplethorpe non risolve. Espone. Lascia che lo sguardo dello spettatore si perda o si riconosca.
Fiori e vetro: erotismo naturale
Poi ci sono i fiori. Le fotografie floreali sono forse le più ingannevoli del suo repertorio. Apparentemente pacificate, sono in realtà altrettanto cariche di tensione erotica e simbolica quanto i suoi nudi. Una calla bianca, ad esempio, in una stampa in bianco e nero dai contrasti esasperati, si offre come una vulva d’ombra. Una rosa in decomposizione può essere un’allusione al corpo che invecchia, che muore, che sfiorisce. Il fiore è per Mapplethorpe un doppio del corpo umano, una maschera biologica perfetta. E, all’interno delle Stanze del Vetro, questa serie risplende: si riflette, si sdoppia, dialoga con l’ambiente e con lo sguardo.
L’interazione tra trasparenze architettoniche e trasparenze iconografiche raggiunge qui una vertigine poetica. Il vetro, infatti, si comporta come la fotografia: separa e rivela, isola e ingrandisce, protegge e taglia. Non è un caso che la mostra sia allestita proprio in questo luogo, dove lo sguardo è filtrato, sempre, da qualcosa di fragile (leggete di più qui).
Lo sguardo che resta: Mapplethorpe oggi
Oggi, che ogni cellulare è una camera oscura tascabile, che milioni di immagini di corpi circolano senza più contesto né cura, l’opera di Robert Mapplethorpe appare ancora più necessaria. Perché ci ricorda che lo sguardo è sacro. Che il corpo, per essere visto davvero, deve essere desiderato con attenzione. Che la bellezza non è un dato oggettivo, ma una costruzione precisa, carica di pericoli e significati.
La mostra veneziana ci restituisce tutto questo. Non come omaggio, ma come testamento. Ogni fotografia diventa così una lettera non spedita. Una dichiarazione d’amore. Una sfida al tempo e al giudizio.
E ora spalanchiamo davvero le porte di questa cattedrale segreta che è stata la relazione tra Sam Wagstaff e Robert Mapplethorpe. Perché in fondo la loro storia non è solo un episodio dell’arte americana del secondo Novecento: è un’allegoria della bellezza e del potere, dell’amore e del controllo, del desiderio come architettura dell’arte. E i diari – sebbene ellittici, spezzati, disseminati – sono le reliquie più intime di questa liturgia laica.
Un’estetica dell’ossessione: Sam Wagstaff prima di Mapplethorpe
Per capire il ruolo di Sam Wagstaff non basta etichettarlo come “mecenate” o “collezionista”. Bisogna immaginare la sua mente come un dispositivo ottico: una camera oscura, un negativo sviluppato lentamente nel tempo. Nato a New York nel 1921, era cresciuto in un ambiente aristocratico e repressivo, circondato da tutto tranne che dalla libertà d’espressione. Aveva studiato storia dell’arte con rigore accademico, ma ciò che davvero lo muoveva era un impulso da collezionista non verso l’oggetto, bensì verso l’aura. Ciò che conservava, in fondo, era l’epifania che un’immagine può generare. Per lui ogni fotografia non era semplicemente “bella”, ma era un’esplosione silenziosa: una visione.
Negli anni Sessanta lavora come curatore al Wadsworth Atheneum e successivamente al Detroit Institute of Arts, dove promuove l’arte concettuale con fiuto pionieristico. Ma dietro la figura elegante e cerebrale, cova un bisogno personale e quasi fisico: dare un corpo al proprio desiderio, far coincidere l’estetico e l’erotico. La fotografia, con la sua ambiguità tra documento e visione, tra rivelazione e allusione, diventa il suo strumento prediletto.
L’incontro con Mapplethorpe come detonazione esistenziale
Quando nel 1972 conosce Robert Mapplethorpe, Wagstaff ha cinquantuno anni e un’aura di potere sobrio; Robert ne ha ventisei, e irradia una sensualità crudele, cristallina, quasi liturgica. L’incontro tra i due non è soltanto una seduzione: è un’implosione. Wagstaff capisce subito che Robert non è un giovane fotografo come gli altri. Lo vede, prima ancora che come artista, come un’icona da scolpire, da incoraggiare e offrire al mondo. Ma anche da proteggere, da nutrire, da spingere oltre i limiti.
Da quel momento, tutto inizia a ruotare intorno a lui. Sam lo finanzia, lo introduce alle gallerie più influenti, ne cura la presenza scenica, lo sostiene nelle esplorazioni del sadomasochismo, della pornografia, della rappresentazione queer come gesto politico. E Robert – che è tanto inquieto quanto ambizioso – trova in Sam il suo specchio adulto, il suo produttore d’anima, il suo Virgilio nel mondo brutale dell’arte.
I due condividono tutto: letti, viaggi, studi, serate nei locali underground e aste d’antiquariato. Ma soprattutto condividono un’idea precisa dell’arte: quella che non può essere separata dalla carne, dal desiderio, dalla morte.
I taccuini, le lettere, i vuoti: l’altra faccia della passione
Se i diari di Sam Wagstaff non sono diari nel senso canonico – continui, lineari, ordinati – sono però tracce potentissime. Annotazioni rapide, frasi spezzate, lettere mai spedite, elenchi di fotografie, giudizi lapidari. E soprattutto silenzi. I silenzi che solo chi ama veramente può scrivere. In queste carte si percepisce un desiderio che non cerca soddisfazione, ma significato. Sam non vuole possedere Robert, ma consacrarlo. Farne un’icona non solo per se stesso, ma per la storia dell’arte.
Molti studiosi (come Philip Gefter nella sua biografia fondamentale) parlano di un amore quasi ascetico, dove la distanza e la discrezione erano atti di rispetto. Wagstaff sa di essere un satellite: potente, necessario, ma mai centrale. Sa di star contribuendo a qualcosa che lo supererà. E lo accetta, non senza sofferenza.
“L’arte è la forma più pura del desiderio,” annota in una delle sue riflessioni.
“E lui [Robert] è il mio desiderio che ha trovato forma.”
Questa frase, apparentemente semplice, racchiude un intero universo di tensioni: tra potere e sottomissione, tra spirito e carne, tra bisogno di controllo e abbandono.
Una vita a due che diventa monumento condiviso
Mentre Mapplethorpe crea immagini che fanno tremare le istituzioni – uomini nudi in pose scultoree, fiori carichi di erotismo, autoritratti come icone cristologiche – Wagstaff continua a collezionare fotografie con precisione maniacale. La sua collezione privata diventa una delle più importanti al mondo, con oltre 5.000 opere. È come se, attraverso la raccolta, cercasse di “preparare il terreno” per la ricezione del lavoro di Robert. Una strategia culturale, ma anche un atto d’amore: creare un mondo che sia pronto ad accoglierlo.
Quando nel 1984 Wagstaff dona gran parte della collezione al Getty Museum, lo fa non solo per motivi pratici, ma per garantire che ciò che ha creato sopravviva oltre la sua malattia. È già affetto dall’AIDS, e anche Robert sa di essere malato. La fine è incombente, eppure nessuno dei due cede alla tragedia. Trasformano la decadenza in un’estetica. Fanno della morte un’estensione del desiderio.
Robert morirà nel 1989, due anni dopo Sam. Prima di andarsene, organizza la sua retrospettiva più grande, e lascia indicazioni precise sulla gestione della sua immagine. È come se volesse chiudere il cerchio iniziato con quel primo scatto fatto da Sam tanti anni prima.
L’eredità: più che un amore, una costruzione mitologica
Oggi, parlare di Sam Wagstaff solo come “il compagno di Mapplethorpe” è riduttivo. Fu un costruttore di contesti, un architetto invisibile della cultura visiva queer, un sacerdote laico dell’immagine. I suoi scritti, se letti con attenzione, raccontano di un’intelligenza che ha saputo sacrificarsi per una visione più grande: quella della bellezza assoluta, anche se dolorosa. La loro relazione è diventata materia di romanzi, documentari, opere teatrali. Ma nessuna narrazione riesce davvero a cogliere il mistero sottile di quegli anni: la gioia malinconica con cui due uomini, nel cuore dell’America puritana, hanno ridisegnato la storia dell’arte con un abbraccio che ancora ci riguarda.
Una cronologia intrecciata delle vite di Sam Wagstaff e Robert Mapplethorpe, come un montaggio parallelo tra due traiettorie destinate a convergere, scontrarsi, completarsi. Una linea del tempo che non è solo successione di eventi, ma tessitura emotiva, intellettuale, estetica. Subito dopo, possiamo approfondire alcune note e frammenti testuali di Wagstaff custoditi nei Getty Research Institute Archives, con un’analisi critica.
(19 aprile 2025)
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