di Fabio Galli
La lettura di Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino è come un viaggio nell’inferno di un mondo che non fa sconti: il racconto si svolge tra le mura claustrofobiche di un ospedale psichiatrico, dove la sanità mentale è continuamente minacciata da una realtà tanto crudele quanto ineluttabile. Il romanzo, scritto con una lingua raffinata e allo stesso tempo cruda, sembra voler attraversare le pieghe più oscure della psiche umana, immersa in un’atmosfera di pazzia e solitudine.
La trama si dipana attraverso la figura del protagonista, un uomo malato di tubercolosi che si trova ricoverato nel reparto di una clinica, un luogo che in poco tempo diventa una sorta di microcosmo in cui ogni individuo è un piccolo mondo che si muove nella disperazione della propria condizione. La malattia, e la sua ombra inquietante, non è solo fisica, ma coinvolge ogni aspetto della vita: c’è una dimensione esistenziale che si fa soffocante, in cui la morte è una presenza costante, ma anche un modo per eludere la sofferenza.
Bufalino gioca con il linguaggio, manipolando le parole come strumenti di analisi profonda, come un medico che non cura, ma disegna una diagnosi acuta dell’animo umano. La sua prosa è a tratti barocca, ma ogni parola è misurata e carica di significato. La malattia è il punto di partenza, ma il romanzo si fa riflessione su un altro tipo di malattia: quella sociale, quella dell’abbandono, della solitudine e della disillusione.
Nel contesto dell’ospedale, il protagonista si scontra con una realtà che sfuma nei confini della paranoia, tra voci che circolano sul “pazzo” che è stato accusato ingiustamente di diffondere la tubercolosi. La “diceria dell’untore”, l’etichetta che gli viene imposta, diventa il simbolo di una condanna senza processo, un marchio che non solo lo separa dal resto del mondo, ma lo confina in una dimensione che trascende la medicina e si trasforma in un abisso etico e morale.
Bufalino dipinge un quadro di solitudine e incomunicabilità che si fa più drammatico proprio perché svela le contraddizioni di un sistema che non si preoccupa della dignità umana, ma che si limita a marchiare, escludere, e condannare. È un romanzo che non offre risposte facili, ma invita il lettore a riflettere sul significato della malattia, sul peso del giudizio sociale e sulla fragilità dell’esistenza umana. Un’opera complessa, intrisa di un dolore che si fa esistenziale, ma anche di una speranza che si nasconde nel mezzo della disperazione.
Leggere Diceria dell’untore è un’esperienza dolorosa, ma necessaria. Un libro che, pur nella sua crudezza, sollecita una riflessione profonda sul destino dell’individuo, sul bisogno di essere visti, ascoltati e compresi. Un romanzo che non scende a compromessi, ma che lascia al lettore la sfida di interpretarne le molteplici sfumature.
Ci sono alcuni aspetti che vale la pena approfondire. Diceria dell’untore è anche un’opera che si distingue per la sua struttura narrativa, che sfuma i confini tra realtà e finzione. La prospettiva del protagonista, che vive il suo ricovero come una sorta di prigione senza tempo, viene interrotta frequentemente da monologhi interiori e riflessioni filosofiche che rendono il romanzo più di una semplice cronaca di malattia. È un’indagine sull’identità, sulla percezione della realtà e sul confine tra la sanità mentale e la follia.
Il tema del “colpevole senza colpa”, così come il senso di ingiustizia che attraversa tutta la vicenda, acquista una dimensione universale: la diceria, che si diffonde come un virus, non riguarda solo la tubercolosi, ma anche l’alienazione sociale, l’isolamento dell’individuo, e l’impossibilità di sfuggire a una condanna che non ha radici razionali. La “diceria” si fa metafora di un sistema che costruisce verità su false premesse, su voci infondate, che diventano certezza collettiva.
Inoltre, c’è una componente storica e sociale che non può essere trascurata. L’ambientazione del romanzo si sviluppa in un periodo segnato da una forte povertà e da una sanità pubblica fragile, ma ciò che Bufalino esplora va ben oltre il contesto socio-politico dell’epoca: egli mette a nudo il lato oscuro dell’animo umano, come se la malattia fosse solo un pretesto per raccontare una storia di alienazione esistenziale, una condanna all’emarginazione e una ricerca di redenzione impossibile.
In un’ulteriore riflessione, Bufalino non si limita a rappresentare il dolore, ma riesce a far emergere anche una bellezza tragica nella condizione del protagonista. Nonostante la disperazione, le sue pagine sono ricche di una poesia che nasce proprio dalla consapevolezza della sofferenza. La bellezza di Diceria dell’untore risiede nel suo sguardo lucido e, allo stesso tempo, compassionevole verso il dolore umano, in un contrasto che affonda le radici nella tradizione della letteratura italiana, ma che al tempo stesso è capace di toccare corde universali.
Così, il romanzo diventa non solo un’esperienza dolorosa, ma anche un’opera di grande intensità emotiva, in grado di sollevare interrogativi sulla condizione umana, sulla fragilità della vita e sull’ineluttabilità del destino. La lettura di Diceria dell’untore lascia una traccia profonda, inquietante e, paradossalmente, purificante.
Un altro aspetto fondamentale di Diceria dell’untore è la sua dimensione metanarrativa. Bufalino non si limita a raccontare una storia, ma costruisce un racconto dentro un racconto, conferendo al romanzo una sorta di labirinto autoriflessivo. Il protagonista, infatti, è anche un narratore che si confronta continuamente con il proprio ruolo di testimone e di malato, portando il lettore in una spirale di incertezze e riflessioni sul valore stesso della narrazione. La malattia diventa un pretesto per esplorare anche i limiti della memoria e della testimonianza, sollevando la domanda su cosa significhi raccontare una vita quando la vita stessa si fa incerta e instabile.
La presenza della “diceria”, che dà il titolo all’opera, è una forza quasi sovrannaturale che guida l’intera vicenda, come se fosse un entità a sé stante, capace di distruggere vite senza nemmeno necessitare di prove concrete. La diceria è infatti più potente della verità, è un’ombra che si allunga su ogni personaggio e li condanna senza che possano fare nulla per difendersi. In questo senso, Bufalino crea una critica ferocissima alla società e al suo bisogno di etichettare, stigmatizzare, e giustificare le proprie paure e pregiudizi con storie che diventano verità in assenza di qualsiasi verifica.
Anche la relazione tra il protagonista e gli altri “ospiti” dell’ospedale merita attenzione. Ogni personaggio che incontra, ogni figura che appare nella sua esistenza, diventa una sorta di specchio distorto, un eco della sua stessa condizione. Questi individui, pur nella loro diversità, sono tutti accomunati dalla stessa condizione di marginalità. Il contatto con l’altro, sebbene attraverso lo schermo di una sofferenza condivisa, diventa il terreno per una riflessione sul concetto di normalità e sull’inutilità delle etichette.
Un elemento che non si può non sottolineare è il modo in cui Bufalino tratta la memoria. La malattia del protagonista non è solo fisica, ma anche mentale, ed è in questo gioco di confini tra memoria e oblio che si dipana la trama. La malattia come metafora della dimenticanza, la lotta tra il ricordo e l’illusione, diventa il cuore pulsante di un romanzo che esplora non solo il corpo, ma anche l’anima dell’individuo, continuamente scossa dalla diceria e dall’etichetta che gli viene cucita addosso. In questo modo, Diceria dell’untore diventa un’opera di grande spessore intellettuale, capace di mescolare il racconto personale con una riflessione collettiva sulla condizione dell’uomo nella società.
In sintesi, Diceria dell’untore è un romanzo che non lascia indifferenti, capace di affrontare il dolore e l’emarginazione con un’intensità che sfida le convenzioni narrative e stilistiche. È un libro che invita alla riflessione e che non esita a mettere il lettore di fronte alla crudeltà del giudizio sociale e alla fragilità dell’esistenza umana. Un’opera che, pur nel suo smarrimento, conserva una forza dirompente e una bellezza struggente.
Un’ulteriore riflessione su Diceria dell’untore riguarda il suo rapporto con il concetto di “verità”. Bufalino costruisce un mondo dove la verità è sfuggente, fluida, e si mescola facilmente con la falsità e la suggestione. La verità che circonda il protagonista, che gli viene imposta dalla società, non è mai chiara e non trova mai una forma definitiva. La “diceria” che lo condanna è esattamente questo: una verità non provata, non concreta, ma che ha il potere di trasformarsi in realtà pericolosa, distruttiva. Bufalino riflette, quindi, anche su come le verità imposte dalla collettività possono essere più devastanti delle verità reali, che restano, nella maggior parte dei casi, ignorate o negate.
In questo senso, il romanzo si fa un’opera di critica nei confronti di un mondo che si costruisce su pregiudizi e percezioni distorte. La diceria che condanna l’untore diventa un simbolo di tutti quei meccanismi sociali che, in nome della verità, creano ingiustizie, emarginazione e divisione. L’opera si allontana quindi da una semplice denuncia sociale per interrogarsi sul ruolo del singolo nel contesto di un collettivo che spesso preferisce ignorare la complessità della realtà, scegliendo invece di rifugiarsi in narrazioni semplificate e a volte devastanti.
Un altro tema che emerge è quello del “limite” e della “finitudine”. La malattia, il corpo sofferente, la morte imminente, pongono il protagonista di fronte ai limiti insormontabili dell’esistenza umana. In questo scenario, Bufalino non solo narra la condizione di un malato, ma solleva la questione della morte e dell’ineluttabilità del destino umano. Il limite fisico e mentale diventa il punto di partenza per una riflessione più ampia sulla condizione umana: una condizione di finitezza e fragilità che sembra non poter essere superata, se non tramite la speranza, sempre più tenue, che il malato nutre verso una salvezza impossibile.
La forma del romanzo, anche se lineare nella narrazione della malattia, gioca con le digressioni, i monologhi interiori e le riflessioni filosofiche, creando un’ulteriore distanza tra il mondo del protagonista e la realtà che cerca di afferrare. La lingua che Bufalino usa è al tempo stesso desolante e poetica, ricca di suoni, di echi, di riflessi, che restituiscono la sofferenza non solo nei suoi aspetti fisici, ma anche nella sua dimensione spirituale. La scrittura è uno degli strumenti principali con cui l’autore esplora la psiche del protagonista e la sua lotta contro l’etichetta sociale, diventando a sua volta un atto di resistenza e di rivendicazione della propria umanità.
La bellezza del romanzo risiede nel fatto che non si accontenta di rappresentare il dolore in modo didascalico o pietistico, ma si fa specchio di una realtà che è, purtroppo, complessa e contraddittoria. La sofferenza, in Diceria dell’untore, non è solo una condizione da cui uscire, ma è una dimensione con cui il protagonista deve convivere, un terreno di confronto con se stesso e con gli altri, un modo per sfidare l’impossibilità di un’esistenza interamente definibile.
Diceria dell’untore è un’opera che sfida la percezione che abbiamo della malattia, del giudizio sociale e dell’esistenza stessa, costringendo il lettore ad affrontare la propria vulnerabilità e a confrontarsi con la necessità di ricercare verità che spesso sfuggono. È una lettura difficile ma profondamente necessaria, che risuona a lungo dopo l’ultima pagina.
Un altro aspetto da considerare riguarda la dimensione storica e sociale in cui si colloca Diceria dell’untore. Il romanzo non si limita a un’indagine sulla malattia, ma ne fa anche una riflessione sulla storia recente dell’Italia, segnata dalla povertà e dai disastri sociali del secondo dopoguerra. In questo contesto, Bufalino offre una visione disincantata della condizione umana, in cui la guerra, la miseria e le epidemie diventano tessuti di una realtà che piega l’individuo, ma che non lo annienta mai completamente.
Il protagonista, pur immerso in un ambiente opprimente, in cui la malattia e la diceria lo isolano, continua a lottare, seppur in modo solitario. Questo riflette una visione pessimistica della società in cui gli individui sono abbandonati a loro stessi, senza un reale aiuto o comprensione, e la loro unica possibilità di sopravvivenza sembra passare attraverso la resistenza interiore, un’idea che trova eco nelle vicende di molte figure del dopoguerra, strette tra le macerie materiali e morali del conflitto.
Bufalino, scrivendo in una lingua che alterna poesia e cruda realtà, riesce a dare voce alla sofferenza senza mai cadere nel pietismo. La sua scrittura è sempre sotto il segno di un equilibrio delicato tra la tragedia e la bellezza, che si incontrano nel tentativo di restituire dignità all’individuo, nonostante le circostanze. È in questo che Diceria dell’untore si fa un romanzo complesso: non offre facili risposte o consolazioni, ma solleva domande esistenziali e sociali che sono ancora rilevanti oggi.
La sua universalità sta nel fatto che il “maledetto” protagonista, l’untore, non è un personaggio legato esclusivamente a un periodo storico o a una malattia specifica, ma rappresenta un archetipo di chi viene giudicato, escluso e relegato ai margini per motivi che spesso sono infondati. La sua lotta interiore per difendere la propria identità, per cercare una verità in un mondo che lo ha già condannato, diventa simbolo di tutti coloro che, nella vita, hanno dovuto fare i conti con l’incomprensione e la solitudine.
Inoltre, la riflessione sulla colpa e sull’innocenza emerge come uno dei temi centrali del libro. La condanna che il protagonista subisce a causa della diceria non si basa su fatti concreti, ma su voci e pregiudizi. La sua colpa è quella di essere diverso, di non rispondere agli standard imposti dalla società. La malattia stessa, quindi, diventa simbolo di una condizione di diversità che può essere stigmatizzata dalla collettività. In questo senso, Diceria dell’untore ci invita a riflettere sulle nostre stesse attitudini nei confronti dell’altro, sull’urgenza di umanizzare chi viene emarginato e riabilitare la verità che spesso viene distorta dal giudizio sociale.
Ancora uno spunto interessante riguarda la sospensione temporale in cui si trova il protagonista: l’ospedale è un luogo fuori dal tempo, una sorta di limbo, dove la vita sembra sospesa tra la speranza di una cura e la consapevolezza della morte. Questo spazio, tra il vivo e il morto, rappresenta non solo la condizione fisica della malattia, ma anche quella spirituale, una riflessione sul senso della vita stessa, che è sempre più incerta man mano che ci si avvicina alla fine. In questo limbo, l’individuo è costretto a confrontarsi con il proprio passato, con la propria coscienza e, infine, con la propria finitudine.
In conclusione, ciò che rende Diceria dell’untore un’opera di rara intensità è la sua capacità di parlare di qualcosa di intimo e personale, ma al tempo stesso di entrare in risonanza con le problematiche universali. È un libro che, pur nella sua drammaticità, non perde mai la sua dignità narrativa e intellettuale, e che costringe chi legge a mettersi in discussione. Per questo motivo, l’opera di Bufalino è destinata a rimanere un punto di riferimento nella letteratura italiana contemporanea, un testo che affronta temi senza tempo e che, pur nella sua amarezza, conserva una sua luce, una sorta di speranza che si trova nell’accettazione della condizione umana, nella consapevolezza che la verità non è mai semplice e che la lotta per essa è, in qualche modo, il nostro destino comune.
(26 novembre 2024)
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