di Fabio Galli
Fino al 3 febbraio 2025, il Louvre ospita una mostra che risuona come un’eco lungo i secoli: Le figure del matto. Dal Medioevo ai romantici. Qui, tra le stanze intrise di storia e silenzio, si esplora la figura del folle come riflesso profondo, crudele e talvolta persino tenero, di una società che da sempre lo osserva con un misto di timore e fascinazione. È come se questi “matti”, rappresentati con colori, gesti, e sguardi così intensi, ci chiedessero di accostarci al limite, di sbirciare oltre il velo della normalità.
La curatrice dell’esposizione, Elisabeth Antoine-König, osserva con acume che non si tratta di semplici figure, ma di personaggi che, attraverso l’arte, rivelano un altro mondo. Emblematica è la connessione che si può tracciare con il contemporaneo Joker interpretato da Joaquin Phoenix nel recente film Joker: Folie à Deux (2024). Antoine-König invita i visitatori a soffermarsi sui dettagli che rivelano questa “parentela visiva” tra il Joker moderno e i folli delle opere antiche. C’è qualcosa di inaspettatamente familiare nei colori degli abiti sgargianti del Joker, una sfumatura medievale nel suo modo di muoversi in bilico tra il comico e il tragico, e quel sorriso inquietante che evoca i ritratti del buffone di corte o del “fou” rinascimentale.
Attraverso opere che spaziano dai dipinti medievali, dove i “pazzi” sembrano incarnare le paure e i segreti dell’umanità, fino ai romantici, in cui il matto diventa un simbolo della condizione umana, la mostra invita a guardare negli occhi un personaggio che non è mai davvero scomparso. Il matto, ieri come oggi, ha il potere di sovvertire l’ordine, di svelare le verità scomode e di generare scompiglio. È l’intruso, il profeta della rottura, colui che, proprio perché si trova ai margini, possiede uno sguardo lucido sul centro.
Così, tra le sale del Louvre, ci si scopre immersi in un dialogo con il passato, ma anche con il presente, in cui i folli delle opere sembrano volerci ricordare quanto poco sia cambiato nel nostro bisogno di un “altro” che ci spinga a mettere in discussione il nostro mondo.
La mostra Le figure del matto. Dal Medioevo ai romantici è un viaggio che non si limita a celebrare il genio degli artisti, ma si addentra nelle sfumature culturali e sociali che hanno plasmato la figura del folle, rendendola un simbolo complesso e perennemente in bilico tra condanna e fascinazione. Attraverso oltre cento opere, tra dipinti, sculture, miniature e manoscritti, il Louvre ci accompagna in un percorso che svela la presenza del matto nei contesti più vari: dalle corti ai villaggi, dai monasteri alle piazze.
L’allestimento stesso della mostra è pensato per ricreare un’atmosfera sospesa tra realtà e allegoria, come se ci trovassimo in una galleria di specchi, dove ogni opera riflette un’epoca e al tempo stesso si rispecchia nelle altre. Nei ritratti dei buffoni di corte – personaggi abbigliati con abiti sgargianti, quasi caricaturali, ma al contempo portatori di un sapere obliquo – si respira un’aria di intelligenza scomoda, di verità rivelate attraverso il paradosso. Alcuni quadri raffigurano il matto come un veggente, colui che, tramite un apparente nonsenso, sfida i potenti e ridicolizza l’autorità.
La mostra offre una varietà di opere affascinanti: miniature gotiche in cui i matti popolano i margini delle pagine, quasi fossero spiriti dispettosi intrappolati tra le righe, e dipinti rinascimentali dove la follia si fa tragica, sfiorando il sublime. Non mancano le rappresentazioni simboliche, come le allegorie della pazzia dipinte nel tardo Rinascimento, in cui il matto appare come l’ombra inquietante dell’umanità, uno specchio oscuro che ci obbliga a fare i conti con le nostre stesse ossessioni e paure.
Particolarmente toccante è la sezione dedicata al Romanticismo, in cui la figura del folle si carica di un’aura tragica e poetica. Qui, il matto diventa quasi un poeta dell’inconscio, il simbolo di un’interiorità tormentata, di un animo che non riesce a trovare pace nel mondo. È l’epoca in cui i “folli” iniziano a non essere più soltanto oggetto di scherno o timore, ma figure da indagare, da comprendere; diventa, per gli artisti, uno specchio dell’inquietudine universale.
Elisabeth Antoine-König sottolinea come l’arte sia stata un rifugio, ma anche una lente per vedere il diverso con occhi nuovi. Con ogni opera si riscopre un’epoca in cui la follia era percepita non solo come una condizione medica, ma come un mistero, un dono o una condanna divina. Il pubblico è quindi invitato a fare un doppio viaggio: non solo attraverso la storia dell’arte, ma anche nei meandri delle paure e delle speranze di società lontane dalla nostra, eppure straordinariamente vicine nel loro tentativo di afferrare un significato più profondo.
Così, Le figure del matto non è soltanto una mostra, ma un’esplorazione di noi stessi: delle nostre ombre, dei desideri nascosti, e di quel bisogno di interpretare il mondo che solo chi è fuori dagli schemi sa davvero cogliere.
Un ulteriore aspetto affascinante della mostra Le figure del matto. Dal Medioevo ai romantici è l’approfondimento sugli archetipi che nel tempo si sono legati alla figura del folle, espandendosi fino a diventare specchi delle contraddizioni sociali. Una sezione particolare è dedicata alla distinzione tra il “matto sacro” e il “matto empio”, due figure che incarnano rispettivamente la santità e la trasgressione. Nel Medioevo, infatti, la follia era spesso interpretata come un segno dell’influenza divina: il “folle di Dio”, attraverso comportamenti bizzarri o mistici, sembrava svelare verità nascoste e si muoveva ai margini della società, protetto da un’aura quasi inviolabile.
Questa concezione, però, si alterna con l’immagine del folle come essere demonizzato, la cui pazzia viene percepita come una punizione o un peccato. In mostra, questa dualità prende forma attraverso sculture e disegni gotici in cui i folli appaiono o come figure angeliche e visionarie, o come creature deformi e grottesche, caricature dell’umano. È un viaggio visivo che ci permette di esplorare come, a seconda delle epoche e delle influenze culturali, la follia sia stata vista come una benedizione o una maledizione.
L’esposizione esplora anche il ruolo della follia nei rituali carnevaleschi e nelle feste popolari, momenti in cui la società rovesciava le proprie gerarchie, permettendo a chi era ai margini di divenire protagonista per un giorno. I quadri e le incisioni che illustrano queste celebrazioni sono vivaci, piene di movimento e di colori intensi, e rivelano un’epoca in cui il “matto” non era soltanto un escluso, ma anche colui che, per un breve istante, si faceva re, rivelando la fragilità delle regole sociali. Si comprende così come, nel gioco di specchi della follia, il matto diventi una figura sovversiva, capace di mettere in discussione le convenzioni con il solo gesto di esistere.
Un’attenzione speciale è riservata alla simbologia del colore, con un’analisi che mostra come i colori vivaci e spesso stridenti, tipici dei vestiti dei matti nelle opere d’arte, siano associati a uno stato liminale, a una sorta di costante ambivalenza. I verdi, i rossi accesi e i gialli vividi attirano lo sguardo, rendendo il matto un punto di rottura nella composizione visiva e invitando chi osserva a un’esperienza quasi ipnotica, come se quei colori fossero finestre su un altrove in cui le regole smettono di avere senso.
Infine, la mostra dedica uno spazio importante alla relazione tra follia e creatività. Numerose opere romantiche e simboliste evocano l’idea del genio “posseduto” dalla sua visione, suggerendo che i grandi artisti condividano con i folli una sensibilità eccentrica, una capacità di vedere oltre il reale. Qui, i visitatori vengono invitati a riflettere su quanto i confini tra ragione e follia siano sottili, sfuggenti e spesso costrutti sociali. Questo dialogo tra arte e follia solleva una domanda: è la follia a rendere artisti certi individui, o è l’arte a farli percepire come folli?
In questa commistione di storia, filosofia e arte, Le figure del matto non solo ci invita a osservare la follia come fenomeno storico, ma a interrogarci sul nostro modo di percepire e giudicare il “diverso”. La mostra diventa così una lente sull’evoluzione della sensibilità umana, una finestra sulle mille sfaccettature della mente e sull’irriducibile complessità di ciò che chiamiamo “normalità”.
(15 novembre 2024)
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