di Giuseppe Sciarra
Teatri di Vita è una delle realtà teatrali più interessanti a livello nazionale, forse la più interessante e coerente, e Stefano Casi ne è direttore artistico oltre che essere scrittore e saggista, e pure sceneggiatore di interessanti opere cinematografiche. Per Maschile & Sciarra lo abbiamo intervistato in tempi di machismo pericoloso (dell’aggettivo tossico non ne possiamo più) e la chiacchierata è stata intellettualmente assai proficua.
Ma è veramente tutta colpa del patriarcato?
Sì. E no. Sì, lo è, perché se la differenza dei sessi, fin dalla notte dei tempi, non è vista come complementarietà ma come gerarchia, allora tutto ciò che ne consegue è permeato da questa visione. No, non lo è, perché non possiamo sempre dare la colpa a princìpi astratti quando questi princìpi sono nulla se non si trasformano in pragmatismo: e in quel pragmatismo la responsabilità è sociale ma anche, e forse soprattutto, individuale.
Spesso si parla di crisi del maschio e si tende a sottolineare che non ci sono più gli uomini di una volta. Ma questi uomini di una volta erano davvero così perfetti?
Gli uomini “di una volta” non sono altro che la proiezione di un desiderio degli uomini o delle donne di oggi. È banale dirlo, ma alla fine, gira e rigira, siamo sempre gli stessi di sempre. Il queer e il gender fluid non sono ‘invenzioni’ moderne, ma condizioni che provengono dai secoli passati e che, semplicemente, prima erano state nascoste o non riconosciute come tali. Ricerche storiche e antropologiche, o anche banalmente le tradizioni mitologiche o letterarie a ogni latitudine ci raccontano una storia della mascolinità ben più articolata di quel che si vorrebbe far credere.
Il parlare in continuazione da parte dei media di questa crisi dell’uomo non crede che ottenga l’effetto di fare sentire il genere maschile sotto pressione, inadeguato e con il risultato di incattivire gli uomini?
Sì, concordo sulla presenza di questo pressing con conseguente crisi. Il problema, però, non è nella ridondanza della questione, ma nel come i media riferiscono la questione stessa. Se si presenta la fluidità mascolina come un elemento di crisi del maschile, allora è inevitabile, ma se lo si presenta come un’affermazione dell’identità maschile diventa un’altra cosa. Parlo, ovviamente, in linea di principio: non è così automatico! Voglio dire che se i media insistono sul contrapporre l’uomo “di una volta” ai “nuovi” modelli, ecco che scatta una reazione negativa. Certo, la questione non investe solo i media, ma l’intera società, e però è inevitabile che i media (e tutta la narrazione che si portano dietro) siano determinanti.
Quale è stata la sua educazione maschile?
Mio padre lavava i piatti e aiutava mia madre nelle faccende di casa, ma si vergognava di farsi vedere col grembiule dalle altre persone. Sto parlando dei primi anni ’70. Ecco, la domanda mi ha subito riportato alla mente questo ricordo: una famiglia che è stata capace di mettere in discussione i ruoli e le regole di genere al suo interno, ma assorbendo la pressione sociale esterna. Sicuramente immagino di aver introiettato molti stereotipi di genere, ma in un contesto familiare in cui molti di questi venivano rivisti, pur senza consapevolezza, con il risultato che la consapevolezza successiva è maturata su una base già molto aperta.
Negli anni ’80 e ’90 cosa significava essere gay?
Non saprei dirlo davvero. Sono stato un privilegiato. Ho passato gli anni ’80 e ’90 a Bologna, praticamente un’isola quasi felice, in una ‘rete’ sociale che non è mai stata realmente ostile. Semmai, il contesto rimandava a determinati modelli maschili, che il nostro impegno nel movimento gay di allora (all’interno del quale ho lavorato per gran parte degli anni ’80) cercava di affrontare e criticare, nella società ma anche all’interno dell’ambiente gay. Ma qui rischiamo di andare su questioni troppo vaste e complesse che ora non sono in grado di mettere a fuoco…
Oggi essere un uomo con una sensibilità femminile è ancora un problema?
Non credo che lo sia nella realtà quotidiana, perlomeno non più o non come era, appunto, fino al secolo scorso. Nel senso che credo che nei rapporti interpersonali questa cosa sia stata superata, a parte alcune sacche sociali più difficili. Forse lo è attraverso quella narrazione mediatica a cui mi riferivo prima, dove ancora la fenomenologia queer, gender fluid o “maschile con sensibilità femminile” è quasi sempre legata all’eccezionalità e alla stravaganza.
Come hanno inciso le figure dei suoi genitori nella sua vita?
Come dicevo prima, sono stati in qualche modo dei modelli, non in quanto figure da imitare, ma perché si sono palesati ben presto come persone capaci di rimettere in gioco i modelli sociali, pur essendo ancora condizionati da quei modelli. E questo me li ha presentati ben presto come figure portatrici di fragilità. Non ho mai idealizzato i miei genitori, ma ne ho colto da subito una umanità contraddittoria, che mi ha aiutato molto nell’affrontare l’umanità che si nasconde dietro ogni persona. Quando ho detto ai miei genitori, ormai ultraventenne, di essere gay (stiamo parlando di metà anni ’80), hanno reagito con una tenerezza che non mi aspettavo e mi ha anche commosso, per come hanno ‘filtrato’ questa ‘confessione’ dentro la loro esperienza, non semplicemente ‘accettando’ ma cercando di comprendere cosa davvero avesse significato per me tenere il ‘segreto’ così a lungo. E sempre con quel misto di straordinaria e moderna apertura, e al tempo stesso con il pudore di chi avverte il senso di giustizia e di emancipazione, ma senza saperlo riconoscere appieno.
Nello spettacolo evǝ che lei a riadattato si parla di fluidità di genere partendo dalla vicenda di Adamo ed Eva e della famosa mela. Che rapporto ha con questa storia?
Fino all’età di 17 anni frequentavo la chiesa, anche con una buona convinzione, ero anche molto attivo nei gruppi giovanili. E al tempo stesso cercavo risposte che nessuno riusciva a darmi realmente, a cominciare dalla sessualità ma non solo, finché non ho capito che non le avrei mai trovate, e ne sono uscito, e più tardi – come azione politica – ho anche chiesto lo sbattezzo. Adesso, da molto tempo, sono decisamente laico nei miei rapporti con la religione e le sue storie: non ci credo, non mi interessano, se qualcuno ci crede sono affari suoi, ma non mi appassiona nulla di ciò che riguarda la religione se non come curiosità intellettuale ed eventualmente azione politica. Questo significa che gran parte dello spirito con cui l’autrice Jo Clifford ha scritto “evǝ” mi è estraneo: non mi interessa più di tanto l’invettiva contro la religione. C’è però un dato molto importante, che è poi quello che mi fa apprezzare il testo, e cioè l’importanza fondativa del mito religioso della Genesi nella costruzione del pensiero sociale, appunto patriarcale, da cui discende la forma mentis – e la pratica! – nel corso dei secoli. Ecco, questo sì che è davvero importante, e viene detto esplicitamente a un certo punto.
Nella spettacolo di Jo Clifford si afferma che l’antico testamento è un testo misogino e sessista. Lei che ha rapporto con questo testo?
Come dicevo, l’ho letto e approfondito in età adolescenziale, fino ai 17 anni. Credo sia fondamentale per tutti: ancora ora mi suona strano sentire qualcuno che conosce poco o niente la Bibbia. Per me è imprescindibile per mille motivi, che oggi escludono il motivo religioso, ma non puoi non conoscerla bene se ti interessa vagamente la storia, la letteratura, l’antropologia, l’arte, ecc. Sto pianificando da tempo la ri-lettura della Bibbia (un po’ come faccio ogni tanto con la Divina Commedia: a Dante mi dedico una volta ogni 10-15 anni, non potrei farne a meno, mentre la Bibbia è più impegnativa e purtroppo rimando sempre): questo fa capire quanto mi interessi proprio come grande poema (ho fatto l’esempio della Divina Commedia non a caso) e grande bacino di “cose” che stanno alla base della nostra esistenza attuale: per godermi da una parte la bellezza di un’opera letteraria classica, un fantasy senza età, misogino e sessista certo, ma suggestivamente ipnotico, e dall’altra per rintracciare i fili di un discorso che mi aiuta a comprendere meglio l’oggi sotto tante prospettive, a cominciare da quella di genere.
Cosa si augura che avvenga per il futuro in termini di parità di genere e di liberazione sessuale?
Francamente non saprei indicare qualcosa di preciso. So solo che l’obiettivo è fare in modo che questa domanda non abbia più senso. Ma so anche che la parità di genere e la liberazione sessuale, proprio per il fatto di essere concepiti come concetti, fanno parte di un humus culturale che è quello della nostra cultura occidentale, pertanto parziale e storica. Insomma, appartengono a un percorso e probabilmente non ne rappresentano l’obiettivo finale. La storia non è la corsa verso un obiettivo, ma un concatenarsi di situazioni contraddittorie. Puntiamo alla parità di genere e alla liberazione sessuale, ma con la consapevolezza che forse il senso della vera libertà e del vero rispetto potrebbe anche essere altrove.
(10 gennaio 2024)
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