di Vanni Sgaravatti
Possiamo essere responsabili solo quando abbiamo consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni collettive. Siamo quindi nell’era di una responsabilità non fondata sulla riconoscibilità oggettiva di una impossibile consapevolezza delle nostre intenzioni, ma solo in relazione ad una attribuzione di meriti e di colpe attribuite ai leader del gruppo politico di appartenenza.
Viviamo nell’era della probabilità in cui le cose possono accadere ma non è detto che lo facciano ed in cui, quindi, diventa necessaria la prudenza, la saggezza che prevede un rallentamento del processo decisionale per una maggiore condivisione dello stesso. In contrasto, però con l’urgenza delle risposte ad eventi drammatici che accadono con una frequenza ormai fuori controllo. La partecipazione al processo non è quindi solo necessaria per adempiere al principio morale dell’inclusività, ma per aumentare il livello di saggezza, cioè di prudenza e quindi esercitare la virtù del limite. Questo richiama, però, un altro problema di fondo: una partecipazione di persone non informate aumenta la probabilità di errore rispetto a decisione prese da pochi. Quindi solo se la democrazia fosse compiutamente realizzata, in cui l’accesso alla formazione ed educazione fosse davvero uguale e fosse caratterizzata da un diffuso senso di fiducia verso le istituzioni regolatrici, alcune delle quali “arbitri”, aumenterebbe la qualità della decisione etica. Ma se la democrazia non fosse questo, allora la qualità del processo decisionale persino diminuirebbe, con l’aumento del numero delle persone che hanno accesso al processo decisionale.
Una decisione è tale solo se implica una scelta non dedotta completamente da principi esterni, ma almeno in parte, trova fondamento in sé. Ma oggi il dovere insegue il fare e non lo prescrive, l’etica quindi insegue gli effetti delle decisioni che per questo non sono più decisioni. Diventa quindi etico non tanto le decisioni finalizzate agli obiettivi che, in realtà vengono dedotti dai mezzi tecnici a disposizione, ma il prestare attenzione ai segni del “viaggio” esistenziale che il fare ci pone. Anche se il viaggio viene tracciato oggi dal sapere accumulato disponibile. Un viaggio che può essere vissuto, quindi, come una partecipazione etica agli effetti che casualmente si pongono davanti alla nostra consapevolezza.
In questo contesto, le nostre azioni di aggiustamento possono essere considerate un tipo di decisioni etiche, nel senso di azioni che seguono regole etiche di processo e non un fine. Uno scopo finale che ormai è diventato variabile dipendente dalle condizioni processuali e non è più una variabile indipendente, posta dall’uomo al sistema tecnico, che lo caratterizza, dandogli un senso ultimo. Come avveniva prima dell’era della tecnica. Ma se il viandante fosse solo un viaggiatore allora la meta diventerebbe il fondamento del viaggio per raggiungere il regno e tutto ciò che ci separa da esso diventerebbe solo un interregno (come dice Galimberti nel suo libro “l’etica del viandante”).
La vita stessa orientata alla salvezza escatologica religiosa o alla pianificazione laica diventa un interregno, un’attesa di qualche cosa, per poi magari arrivare alla fine e scoprire che la meta era un’illusione e che, quindi, il non senso si è mangiato tutto il senso a cui avevamo voluto credere. E qui si apre un altro aspetto terribilmente trasformativo.
La dimensione planetaria del degrado ambientale porta per la prima volta la specie umana ad essere anche una grande forza geofisica, cioè una forza in grado di trasformare le condizioni del pianeta e di quelli che vi abitano. Il potere di controllare tale degrado presuppone la capacità di riprendere in mano i fini etici, attualmente determinati dai mezzi tecnici e la possibilità di disporre di un potere di azione planetario, mentre attualmente questo è organizzato tramite gli Stati, il cui potere è utilizzato per governare una parte confinata di un territorio e di gestire i rapporti di cooperazione o di conflitto con i territori confinanti. Dovrebbe quindi aprirsi l’era della fine della sovranità statale la cui fondazione nasce con la pace di Vestfalia nel 600 dopo la guerra europea nr. zero.
I problemi ambientali aumentano, infatti, attraverso il concorso nell’accaparramento di risorse vitali scarse e gli effetti disastrosi per tutti di questa sindrome internazionale del “non nel mio giardino” aumenta la pressione per la rottura di un ordine basato sugli Stati. Una pressione a cui gli Stati dovrebbero auspicabilmente reagire attraverso l’attribuzione di poteri multipolari di collaborazione, allo stesso modo di come questi sorsero come soluzione sistemica al contenimento dei conflitti del “tutti contro tutti”. Problemi planetari che, invece, sembrano spesso indurre gli Stati ad un’estrema resistenza ad un tale sconvolgente cambiamento, che, come fanno tutte le organizzazioni che tendono a salvare sé stesse, reagiscono con un rafforzamento del sovranismo, in chiave difensiva. Un tentativo di resistenza che utilizza la religione come sacralizzazione della cultura e che nulla ha a che vedere con la fede religiosa.
La globalizzazione dei mercati ha già di fatto superato i confini degli Stati e delle legislazioni che avrebbero dovuto proteggere i requisiti di giustizia e di morale convivenza tipici di ogni cultura, ma lo hanno fatto in senso negativo, cioè promuovendo il superamento del potere statale a favore di una emergente oligarchia finanziaria. Dovremmo, quindi, per sperare di imboccare la risposta giusta al declino del potere statale, promuovere una fratellanza, una formazione verso una cittadinanza universale, un’etica del viandante, che se affronta ingiustizie locali, lo fa in nome della contingenza e della provvisorietà del vivere “qui ed ora”, secondo regole di un processo che tiene conto della dimensione planetaria e non lo fa in nome di un ritorno alla difesa dei propri confini. Una difesa improntata alla priorità data ai beni privati o statali, che, così facendo, trascura i beni pubblici generali che, guarda caso, comprendono quelli locali, nel tentativo, più o meno consapevole, di sacralizzare e rendere eterno questo “qui ed ora”.
Le forze che da una parte spingono verso una metamorfosi e dall’altra spingono verso un rimanere attaccati allo status quo sono enormi e, come insegna il premio Nobel della chimica fisica Ilya Prigogine, nei punti di biforcazione, cioè in questi momenti di grande fibrillazione e turbolenza di un sistema, piccole variazioni fanno prendere una strada all’intero sistema e queste piccole variazioni sono tutte per definizioni imprevedibili.
È l’era dei cigni neri, sempre più frequenti, sempre meno neri.
In questa visione, persino una visione sdrammatizzante e anti catastrofista può diventare conservatrice, perché tende a far pensare: non c’è nulla di nuovo, è sempre stato così, come l’uomo che si butta dalla cima di un grattacielo e risponde sempre che finora va tutto bene per tutti i piani che precedono il primo. Come la piantumazione di alberi può essere un gesto locale moralmente positivo di preservazione dell’ambiente e di un rinnovamento ambientale, così può rappresentare un approccio mirante alla conservazione dello status quo, a seconda di come questo è inserito nella narrazione culturale. Ecco perché, nella mia breve esperienza di Assessore, l’ambiente e la cultura, dovevano andare insieme e perché la politica dei piccoli passi, apparentemente saggia, poteva risultare il contrario, se vista come il modo per cercare un consenso, senza stimolare la rottura cognitiva con cui veniva visto il destino del proprio territorio e della propria comunità.
Non comprendere questo legame tra iniziative locali ambientali e narrazione culturale annessa significava toccare la cifra che avrebbe, per me, dovuto avere quell’esperienza politica e che, per questo si è interrotta. A parte questioni relazionali di dettaglio e piccoli eventi fastidiosi di contorno.
(17 ottobre 2023)
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