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“Maschile & Sciarra” intervista Stefano Pierpaoli per parlare di una violenza generalizzata ben oltre il mondo maschile

di Giuseppe Sciarra

Appassionato attivista politico sempre controcorrente, Stefano Pierpaoli è presidente di Filmstudio, storica realtà romana fucina di idee e dibattiti che ha fatto della cultura il suo cavallo di Troia. L’abbiamo intervistato per parlare del mondo maschile e ne è scaturita un’intervista un po’ sui generis che trascende l’argomento “uomini” per parlare di una violenza generalizzata in una società allo sbando dove i media appiccano roghi e gran parte della gente non ha più gli strumenti e i riferimenti culturali necessari per difendersi.

L’intervista.

C’è secondo te una generalizzazione e una caccia alle streghe nei confronti della figura maschile?
Più che sulla generalizzazione mi soffermerei sul pericolo della semplificazione nel modo di trattare i temi collegati agli atti violenti. Siamo fagocitati dalla società quantitativa, in cui veniamo per lo più rappresentati con indici percentuali e rilevazioni numeriche. Il rischio è quello di ignorare una complessità di sintomi per ridurre tutto a una sintesi che ci restituisca alcuni colpevoli mediatici e un’infinita e virtuale schiera di innocenti.

Dunque una società di buoni e di cattivi?
Esattamente! La strategia dei buoni e dei cattivi, in una società individualistica e polarizzata, facilita il controllo di flussi e tendenze ma non risolve mai il problema alla radice. Tende anzi ad alimentarlo e ad accrescerne gli effetti, perché in tal modo inserisce nella collettività elementi di facile presa. Si produce in questo modo un carosello di eterne emergenze che garantiscono strumenti di dominio a chi controlla l’informazione e il mercato.

Stai affermando che i media ci stanno marciando un po’ troppo nel cercare capri espiatori per fare audience?
La violenza, purtroppo sempre più diffusa, affonda le sue radici in territori che per troppo tempo abbiamo preferito ignorare. Volgarità, sopraffazione e squallore fanno audience, creano consenso e aumentano la clientela. C’è bisogno di intervenire culturalmente con processi che sappiano entrare in quei territori per eliminare i bulbi malati che contaminano le nostre comunità. Vuol dire soprattutto esplorare nelle nostre coscienze senza metterci dalla parte dei presunti, virtuali innocenti. Che l’uomo si senta sul banco degli imputati non è certo legato a una coincidenza casuale. Sono troppi gli episodi di cui è ferocemente protagonista. Se sarà caccia alle streghe dipenderà dal livello del dibattito ma innanzitutto dalla capacità di intervento. Di certo allestire finti roghi, come si usa nei salottini televisivi e sulle pagine dei social, contribuisce ad ampliare la piaga e non certo a fornire strumenti per curarla.

Hai esordito parlando di una società sotto controllo e ridotta a formule numeriche. È questo uno dei territori in cui si sviluppa la violenza?
Le spinte neoliberiste degli ultimi 40 anni ci hanno trasformato da consumatori in prodotto. Esistiamo in funzione di come e quanto sappiamo venderci sulle piattaforme. Siamo merce sugli scaffali di TikTok, Onlyfans o Netflix. La Storia ci sta dicendo che un sistema è fallito, crollato, imploso. Ce lo sta mostrando la natura. Lo conferma la crisi profonda dell’economia mondiale. Siamo circondati da guerre di cui una a tre ore di aereo da noi. Povertà e disuguaglianze aumentano in misura intollerabile. Il livello intellettuale delle classi dirigenti è a dir poco ridicolo. La qualità della politica e il linguaggio dei media altro non trasmettono se non stimoli e impulsi che disgregano e narcotizzano per distrarre e spingere le masse nei recinti di una serenità simulata che ha però perso ogni riferimento. I modelli imposti ci hanno scaraventato nel pieno di una società narcisista ed è una dimensione che pretende violenza perché il mercato si ciba di abusi, di rabbia e di morte. Siamo come palline che rimbalzano passivamente in un flipper e, se anche la maggioranza delle persone non ne raggiunge consapevolezza, si tratta di un vortice che crea angoscia e frustrazione in un labirinto di esasperazioni.

Quanto può incidere il nostro rapporto con la tecnologia in questa esasperazione della violenza?
L’accelerazione tecnologica degli ultimi 30 anni ha generato un’illusione di onnipotenza nella possibilità di manifestarsi, di comunicare e controllare che è coincisa con un arretramento etico e culturale che mai si era verificato nella storia dell’umanità. La falsa percezione di questo potere smisurato ha sviluppato negli animi la tendenza all’eccesso e all’interno di questa amplificazione collettiva l’atto estremo, in quanto espressione di potenza, diventa regola. Nel caso della compulsività digitale gli effetti sono limitati agli insulti e le minacce pur poco piacevoli sui social. Nelle forme più patologiche e ossessive il gesto violento conduce a un epilogo molto spesso più drammatico che si manifesta nella vita reale.

Come inseriresti il femminicidio in questo scenario?
In una società di individui/prodotto la donna, in assenza di quel sistema di riferimenti che spingeva negli anni 70 col femminismo verso l’emancipazione e la libertà, rischia di diventare un prodotto esposto in contesti di arretramento sociale. La figura femminile è uno degli strumenti maggiormente utilizzati a livello mediatico. Il corpo di una donna è mostrato compulsivamente perfino nelle home page dei giornali sportivi. Siti porno, e il già citato Onlyfans, non rendono un gran servizio all’emancipazione della donna. Dalle ragazze fast food di Drive In di 40 anni fa, le successive trasformazioni in Veline, Letterine, Meteorine non hanno certo contribuito a diffondere una cultura valorizzante della donna. Il sistema che ci guida e ci controlla è profondamente totalitario e maschile, non perché stabilito dagli uomini ma molto più semplicemente perché per il mercato funziona meglio. Se si aggiungono gli stimoli di una società dedita al narcisismo e strutturata sull’inevitabilità della violenza espressa in molteplici forme, è evidente che gli effetti ricadano in particolare sulle categorie più deboli: minori, donne, persone disabili ma è un elenco che potremmo ampliare anche ad aggregati che subiscono maltrattamenti e discriminazioni.

C’è una nostra responsabilità individuale in questo tessuto sociale che si alimenta con la violenza?
Quando si arriva all’omicidio con una frequenza sconcertante come quella a cui stiamo assistendo, è altrettanto chiaro che tutti dobbiamo assumerci una responsabilità, non solo collettiva, per arginare il fenomeno. Dobbiamo imparare a contrastare la violenza cominciando a stanarlo nelle dimensioni che apparentemente non sembrano violente. Individuare il germe della sopraffazione nelle forme imposte dal sistema mediatico che determinano i linguaggi e indirizzano i nostri comportamenti. Servirà una straordinaria spinta di emancipazione culturale per garantire a ciascuno di noi gli strumenti di interpretazione ed elaborazione della realtà.

In una società narcisista come la nostra il trionfo dell’ego necessita di essere appagato dai social perché abbiamo bisogno del consenso altrui. Credi che anche in questo mancato appagamento possa germogliare una violenza pericolosa?Assolutamente si. L’era del consenso ci obbliga a ottenere il favore dell’altro per sentirci accolti e riconosciuti. Il meccanismo infernale della relazione influencer-follower si è impadronito delle dinamiche che regolano le relazioni. Viene riprodotto all’infinito il disequilibrio per il quale si fa qualcosa per l’altro in funzione di ciò che viene restituito in termini di immagine, di affermazione egoica, di riempimento di vuoti. Il tuo “mi piace” è l’applauso, la glorificazione, il tributo alla mia genialità. Il più delle volte senza che questa genialità compaia minimamente. Se questo non avviene, il vuoto che si ha dentro si impossessa della visione di se stessi e della realtà. Se quell’applauso non arriva si elimina il follower e nelle manifestazioni più patologiche la soluzione può diventare spietata. Quanto bisogno di consenso, richiesto o elargito, vediamo passare sotto forma di immagini, citazioni e sintetiche frenesie? È una giostra pericolosa e frustrante che ci accieca e ci rende deboli stimolando l’egoismo e l’aggressività. Dobbiamo tornare umani e ricominciare ad amare per vivere la tangibilità dell’esperienza messa in comune. Dobbiamo unire le forze e non le debolezze disfunzionali.

Che responsabilità ha invece la politica nei femminicidi, nelle violenze contro le minoranze e l’altro? Come potrebbero intervenire le Istituzioni?
La responsabilità della politica è quella di essere di fatto scomparsa da quasi mezzo secolo. Quello che oggi ci ostiniamo a definire politica è in realtà un’accozzaglia partitocratica vagamente sostenuta da un 50% della popolazione. Non affiderei a questo groviglio di figurine una funzione più ambiziosa dell’occupazione spasmodica di poltrone. Le Istituzioni, se non fossero espressione di questa partitocrazia peraltro moribonda, dovrebbero intervenire sulle nuove generazioni per garantire, nel mondo della scuola e dell’università, tutti gli strumenti adeguati a formare coscienze equilibrate su una base di solide conoscenze. Ristabilire in questo modo un sistema di valori saldo e al tempo stesso dinamico. Un panorama non omologante e non definito per plasmare rigidamente le masse ma un modello articolato di riferimenti che ci riportino in un alveo di progresso civile e culturale. Dobbiamo fornire i giovani di ogni mezzo utile a non farsi rubare il futuro. La mia generazione ha gravi responsabilità in questo e bisogna in fretta recuperare il tempo perduto.

Qual è il peso della famiglia nel processo che auspichi?
Ci ostiniamo a definire la famiglia secondo canoni che non esistono più da decenni. In un mondo nel quale un ragazzino di 10 anni passa 5-6 ore su uno smartphone di quale famiglia parliamo? Se 50 anni fa, tornando da scuola dopo aver tradotto una versione di Latino, avessi trovato i miei a scambiarsi tramonti su Facebook con gli amici virtuali, avrei buttato il Castiglione Mariotti dalla finestra. Anche qui dovrebbe intervenire la politica, se avesse una visione, e ricomporre modelli che consentano ai genitori di riappropriarsi del tempo indispensabile per seguire i propri figli. Per ascoltarli e recuperare la capacità di decifrare i segnali di un disagio, di un bisogno, di una richiesta di attenzione. Un minore che cresce in un ambiente sano e armonioso ha molte meno possibilità di sviluppare comportamenti lesivi per sé e per gli altri.

Un’ultima domanda in via eccezionale ma ci sei molto simpatico Stefano e vogliamo fartela. Quanto hanno inciso la scuola e la famiglia nel tuo rapporto con l’altro sesso?
L’istruzione mi ha assicurato una base consistente per elaborare il valore di tutti i rapporti, non solo quello con le donne. L’educazione famigliare è stata invece devastante da questo punto di vista. Sono state comunque le donne a formarmi e a mostrarmi confini e riferimenti per vivere al meglio il rapporto. Ho imparato tanto dalle donne e continuo a farlo. Mi hanno fatto crescere e mi hanno permesso di diventare l’uomo che sono. Anche le relazioni conflittuali o disfunzionali, che non nego di aver vissuto e in cui non è certo uscito fuori il meglio di me, mi hanno dato la possibilità di confrontarmi con me stesso per cercare di migliorare come persona. Credo che per raggiungere equilibrio e maturità in un rapporto non esista un modo più efficace dell’insegnamento trasmesso da una donna che abbia una personalità forte, autonoma, indipendente.

 

 

(23 agosto 2023)

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