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Il piacere di scrivere haiku in italiano

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Il costo della libertà

di Vanni Sgaravatti

Siamo stati ben contenti che lo scontro tra modelli culturali, sociopolitici come quelli oligarchici e centralizzati di Russia e Cina e le liberal democrazie occidentali (che alcuni leggevano con “gli occhiali” interpretativi dello “scontro tra egemonie”) non producesse conflitti manifesti, che minavano il benessere, quello degli occidentali naturalmente.

E siamo stati ben contenti, che la regolazione politica, sia a livello di accordi tra egemonie nel periodo della guerra fredda, sia a livello di regolazione istituzionale, di trattati e principi, fosse stata sostenuta, dopo il 1991, da interessi capitalistici e di mercato convergenti. Era in fondo tranquillizzante, dopo il fastidioso episodio di Piazza Tienanmen, che il livello di benessere medio dei cinesi fosse migliorato, anche se vivevano in un mondo con meno libertà, ma che in fondo era il loro mondo, parte della loro cultura, almeno secondo la nostra narrazione occidentale. Un mondo che contribuiva allo sviluppo mondiale dei commerci, cioè anche al nostro, pur con un impatto sulle disuguaglianze interne, effetto, almeno parzialmente, della globalizzazione. Il beneficio correlato, derivante da questa credenza comune sulle nuove regolazioni geopolitiche, consisteva nella percezione di avere potuto archiviare la fastidiosa necessità di pagare un costo per le nostre libertà occidentali. Le libertà, quelle che comprendono il rispetto dei diritti individuali, welfare incluso. Diritti che sono stati poi percepiti come una condizione dovuta, una promessa da mantenere. Nessun costo e sacrificio personale era più necessario per godere di questi diritti.

Quando si dice, di fronte al conflitto in Ucraina: “pensavamo che le guerre in Europa fossero state archiviate nella soffitta della storia”, nascondiamo a noi stessi,la profonda e nascosta credenza che anche le lotte per la libertà, con il conseguente rischio di vita, fossero state archiviate. Certo, doveva essere mantenuto vivo il diritto alla protesta contro il sistema, dovevamo poter urlare allo scandalo morale del sangue che scorreva a fiumi che vedevamo alla televisione. Urla e scandali trasmessi dai media che hanno assottigliato le differenze tra telegiornale e serie di Netflix. Entrambi possono spegnersi con un clic, e poi si va a dormire: domani è un altro giorno.

Dovevamo, però, proprio per sentirci reali, assicurarci dell’esistenza di una socialità, politica e collettiva tangibile. Le proteste nei social, i dibattiti tra amici e persino le manifestazioni di piazza servono a dare l’idea che, in fondo, le nostre proteste sono reali, parte dei nostri diritti acquisiti, che sanno, però, di privilegi. Il privilegio, cioè, di poter protestare contro i complotti dei sistemi. Anche se, parliamoci chiaro: chi andava una volta a protestare si faceva bastonare, se non uccidere: dalla strage sindacalista delle Ginestre, a quella delle ribellioni nella guerra del sale fatte da Gandhi. I protagonisti di quelle proteste avrebbero classificato le loro partecipazioni, come un diritto di morire per la loro causa? Forse l’avrebbero denominate una tragica necessità. Però, abbiamo cominciato, con il tempo, lentamente, tramite comportamenti che sono diventati parte della nostra morale civica a comprendere, ad esempio, che la salvaguardia dell’ambiente comporta un costo anche personale. Abbiamo, però, fatto di tutto per alleviare il costo personale percepito dai cittadini occidentali, facilitando, tra le tante attività quotidiane, la fatica della raccolta differenziata. Cittadini che, in questo esempio, si considerano utenti e beneficiari passivi di un servizio che deve minimizzare il faticoso impegno per l’utente, come componente della qualità necessaria.

I tentativi di minimizzare i costi personali degli utenti dei servizi, progettati in realtà per non perdere il consenso e le elezioni, pur avendo come motivazione di sfondo il richiamo morale al problema ambientale, ha contribuito a passare, inizialmente, il messaggio che esista “un pasto gratis”, cioè che si potesse cambiare rotta, senza modificare i benefici della nostra società del benessere.

Nessuno avrebbe gridato all’ingiustizia quando le donne andavano a lavare i panni al fiume, magari con la cenere. Quella era il mondo, quelle erano le condizioni in cui questo girava. Ma adesso no, non è più così e la tecnologia, quella brutta e cattiva quando si fanno i dibattiti contro gli algoritmi, meno brutta e cattiva quando ci fa fare solo quello che pretendiamo di voler fare, ci permette di fare molte cose. Non credo, però, che la tecnologia ci permetta di pagarci la salvaguardia ambientale senza alcuna fatica personale aggiuntiva.

Però passi avanti ne abbiamo fatti, per contenere i disastri ambientali: le abitudini sono cambiate, soprattutto da parte di quelli che se lo possono permettere, una parte sensibile della popolazione, considera un comportamento ambientalmente compatibile come una normalità: l’impegno è diventato parte delle routine quotidiane. Adesso arriva pure la guerra alle porte di casa nostra, che ci fa aprire gli occhi sul fatto che anche le libertà si conquistano e non si danno per acquisite.

Un disorientamento assoluto dopo il covid: ora anche la guerra tenta di uscire dai teleschermi, come un virus strisciante che fa un salto di specie, dalla tv al nostro corpo e vuole penetrare nella nostra comfort zone. Allora molti, sensibili alle ingiustizie sociali nel mondo, vanno nella loro soffitta cognitiva, non ci trovano più la lotta contro il nazismo, ma le battaglie della protesta anni ’70 e dell’”yankee go home”. E ci trovano, tra gli attrezzi riposti in un angolo, le grandi manifestazioni per la pace nel mondo. Anche se suona un po’ strano e contradditorio quando si cercasse, ad esempio, di mettere insieme l’Ucraina ed il Vietnam, non sapendo bene se parliamo di quella del Nord o del Sud. Forse la prima lottava per la propria indipendenza, forse la seconda ha poi mantenuto più libertà. Lascerei perdere impropri confronti. Ma allora, in nome della pace, qualcuno propone di fare come Gandhi, dimenticando che Ghandi le manifestazioni le faceva di fronte agli inglesi e le pagava di persona e non si dichiarava pacifista, e nemmeno si sentiva buono per quello che faceva, ma parlava di sé come un lottatore che non riteneva utile per vincere le proprie battaglie eliminare con la violenza fisica l’avversario. E, quindi, per fare come lui, dovremmo farla a Kherson, non a Roma, la manifestazione della pace.

Di fronte a queste considerazioni o ci si arrende di fronte al guazzabuglio di valori rimessi in discussione, di paure o di angosce per ripensare derivanti dalla fragilità delle convinzioni ritrovate nella nostra soffitta cognitiva oppure ci si ingarbuglia ulteriormente e si accusa l’”altro” di giochetti dialettici intellettuali: “Che fai provochi?”.

Ma la prima opzione, quella del ripensamento dei propri modelli interpretativi, comporta un costo. E rieccoci di fronte a questo volerci far pagare qualcosa? In realtà, sto solo cercando di capire, cosa è per noi il costo dell’ambiente e il costo della libertà che non possiamo evitare di pagare.

Proprio per noi, che viviamo da sempre in una democrazia in cui deleghiamo altri a rappresentarci, e magari a rappresentare tutte le nostre colpe, così da poter collocare al di fuori di noi le responsabilità e magari il senso della frustrazione dovuta all’impotenza, così da sentirci un po’ più buoni o comunque da assolverci da questo giudice morale rompiscatole interno. In fondo, il potere non lo abbiamo, almeno che possiamo godere del beneficio di stare in pace o di protestare dall’interno della nostra comfort zone. E noi italiani, siamo esperti di questo: “Francia e Spagna basta che si magna” e ne abbiamo visti di tutti i generi nella nostra storia. Ma con questa delega al politico che ci rappresenta forse abbiamo esagerato: non era proprio una delega a trovare il modo di far pagare i nostri costi di cittadinanza a qualcun altro. E’ stato il modo di concepire la delega che ha alimentato, peraltro, una protesta continua, inducendo i nostri rappresentanti a prometterci che non avremmo pagato nessun costo personale o che lo avremmo pagato meno di prima se eleggevamo, lui, l’uomo nuovo, che avrebbe cambiato tutto. Per non cambiare nulla, ovviamente.

E da tempo seguiamo questa immutabile sceneggiatura, in cui tutti recitano una parte in commedia; in cui tutti sappiamo della finzione, ma che, come in quelle recite che si riproducono continuamente, sempre uguali per migliaia di recite, alla fine scambiamo il teatro per la realtà, dimenticando chi avesse cominciato a scrivere quella sceneggiatura e, soprattutto, per quale motivo. E a noi Italiani, il virtuale ci fa un baffo: siamo esperti da tempo nel nascondere la differenza tra sceneggiatura e realtà e sappiamo che ci sarà la grande livella a riportarci con i piedi (e non solo quelli) per terra.

 

(3 luglio 2023)

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