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L’arte di morire di Michela Murgia, in accordo con se stessa

di Giuseppe Sciarra

Socrate accolse la sua morte (quel 15 febbraio a.c.) perché comprese saggiamente che non poteva opporsi al suo destino. Salutò tutti con serenità e rassicurò la moglie disperata, dopodiché bevve la cicuta per morire (ed Erik Satie magnificamente rese musica “I Dialoghi” di Platone, dove di quel Socrate si parla). Giordano Bruno accettò invece addirittura il rogo, e salutò con fierezza questo mondo per salvare la sua anima dall’oscurantismo di un cattolicesimo avido di potere e sangue. Soprattutto di sangue. Grandi uomini che sono andati incontro a una morte imposta dalle leggi del tempo, piuttosto che venire meno alla loro fedeltà verso loro stessi.

Etimologia fedeltà: dal latino fidelitas che deriva da fides ossia fede. Fid è una radice sanscrita e significa legare e sta a indicare l’obbligo di lealtà che ciascun essere umano ha verso se stesso e gli altri.

Per il buddismo l’ultima delle cinque virtù cardinali è la lealtà. Socrate e Giordano Bruno hanno dimostrato lealtà in primis al proprio cuore e alle proprie idee che non potevano tradire per i limiti della loro epoca e per l’inganno che c’è dietro all’idea della morte, temuta da sempre, seppur con differenze di epoca in epoca (a seconda dell’uso dell’idea della morte che era comodo praticare), e oggi censurata e/o negata dalla società dei consumi che ci vuole perennemente giovani ad ogni costo e rivolti all’esteriorità e al materialismo, a discapito della crescita del nostro mondo interiore che sin dai tempi antichi – se credete in certe discipline religiose o agli archetipi junghiani – ha vissuto nutrito da simboli, storie, fantasmi, varie umanità, e a cui gran parte dell’umanità di oggi non sa rivolgersi, quando invece dovrebbe sapersi interrogare in nome della propria laica salvezza.

In una realtà misera e (dis)umana come quella del ventunesimo secolo dunque, quell’universo fondato sullo spirito di cui vorremmo vivere e il cui scopo è la fedeltà alle verità segrete della propria esistenza, insomma a ciò in cui si crede, viene censurato e temuto nell’alienato confronto con la morte e ancor più, con l’accettazione di essa che apre la porta a invasioni barbariche come la negazione dell’eutanasia, l’accanimento terapeutico o qualsiasi altra forma di perverso rifiuto di concedere la libertà del libero arbitrio ad ognuno, fanno parte della grande illusione che chiamiamo vita (o non vita) governata da chi ha la presunzione di presentarsi come via maestra.

Ecco perché la lucidissima intervista al Corriere in cui Michela Murgia ha reso noto di essere affetta da un tumore al quarto stadio e di accettare la sua morte ha lasciato sgomenta l’intera opinione pubblica.

La scrittrice e intellettuale sarda ha sfidato un tabù e intaccato eroicamente un sistema di pensiero malato e ipocrita in cui viene chiesto alle donne e agli uomini di rivolgersi altrove invece che a se stessi quando il momento finale bussa alla porta – secondo modalità che non sono mai quelle che pensiamo. Dichiarando di non voler lottare contro quel male che la ucciderà e che proviene dal suo corpo – andando contro la tradizione morale -politica-religiosa e il (dis)valore che per queste culture danno alla vita considerata sempre di qualcun altro, ma non di chi la vive, ha detto “no”. Con la sua confessione Michela Murgia si è ribellata, fedele a se stessa, a una società che intontisce la gente con stupidaggini e che svilisce, (o addirittura nega), la sfera spirituale delle persone e anziché educarle ad una vita che contiene anche la morte (e a una morte che è in sé rinascita, superstizioni a parte) le porta a sfuggire dall’idea che un giorno non ci saremo più (e al mondo inteso come pulsare continuo del ciclo di vita e morte non importerà un accidente).

Michela Murgia ha voluto intraprendere un’azione semplice quanto rivoluzionaria per lei e tutta la sua famiglia queer (per la quale afferma molto teneramente di aver comprato dieci letti nella sua nuova casa). Ha scelto di morire beneficiando del periodo di vita che le rimane per dedicarsi a se stessa, ai suoi affetti, alle sue lotte, alle sue passioni. La sua è una delle lezioni più forti e coraggiose che mi sia mai capitato d’incontrare: ha scelto di morire come è vissuta, in accordo con sé stessa e non con la testa degli altri: Ci vuole coraggio per restare saldamente fedeli a se stessi più che al sistema e le sue regole. E lei, questo coraggio, l’ebbe.

 

 

(8 maggio 2023)

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