di Vanni Sgaravatti
Il nostro benessere individuale viene percepito in relazione ad un riferimento:
- nel tempo (sto meglio o peggio di prima) che può portare, socialmente, ad una tendenza alla crescita;
- nello spazio (sto meglio o peggio del vicino; intensità di percezione proporzionale alla distanza) che porta ad una tendenza collettiva alla competizione esterna fino alla colonizzazione;
- nel sociale (collocazione del mio status nelle mie relazioni), che porta, socialmente, ad una competizione e conflittualità interna.
Queste tendenze individuali tenderebbero a peggiorare le condizioni generali del collettivo e quindi del contesto dove l’individuo è collocato. Lo sviluppo della morale tende, però, a creare le condizioni per una migliore convivenza nel collettivo. Dal momento che il benessere individuale passa dall’immagine di sé stessi, come soggetto conforme alla morale, in coerenza con quella del contesto, si dovrebbe, in teoria, trovare un punto di equilibrio da cui ci si allontana dinamicamente nel tempo, per poi, però, tendere a ritornarvi, a meno di rotture del sistema.
Nel mondo digitale come dice la Zuboff nel suo libro: “Il Capitalismo della Sorveglianza”, siamo espropriati dai nostri dati e informazioni a fini commerciali. Il ritorno, a grandi linee, per l’individuo utente/cliente è prospettato, attraverso una maggior personalizzazione e aderenza di beni e servizi ai propri desideri. Ma, a livello sociale, la conseguenza, più o meno voluta è quella di cambiare le condizioni del contesto, del collettivo, senza accorgersi di farlo, senza indicare verso quale direzione e senza sapere chi lo ha deciso.
Così, in modo poco visibile, se non a posteriori, cambiano proprio la natura e il tipo di desideri, dando un orientamento “automatico” alla direzione della società. Il problema è che i disagi derivanti da questo spaesamento sociale non sono percepiti nello stesso tempo e spazio in cui l’individuo gode del ritorno a proprio vantaggio delle innovazioni tecnologiche a impatto sociale. Il contesto sociale ci pone problemi e gravi minacce complesse e che superano ambiti e confini con cui finora abbiamo disegnato le nostre appartenenze, il nostro rapporto tra individuo e collettivo.
E affrontiamo questi problemi con due tipi di limiti:
- morale, antropologicamente addestrata per ambiti molto più ristretti a quelli relativi ai problemi e le metamorfosi del mondo contemporaneo, che costituiscono una minaccia per la stessa sopravvivenza sociale;
- della cognizione istintiva, perché quando guardiamo il contesto non possiamo che vederlo dal nostro punto di vista individuale (siamo noi e non altri che riflettono). Noi e gli altri a cui noi apparteniamo su due piani diversi.
E, quindi, facciamo fatica a comprendere le dinamiche collettive, indipendentemente dalle nostre proiezioni individuali, a comprendere l’impossibilità di una continuità tra le dinamiche collettive e quelle personali. La giustificazione, temo, sia antropologica, anzi persino biologica. Siamo stati costruiti, per sopravvivere e svilupparci, ad utilizzare, come incentivi, le sensazioni e le emozioni personali: non facciamo figli pensando alla continuità della specie, ma perché ne avvertiamo l’esigenza e ci piace l’atto di farli. Ecco perché continuo a dire, che non possiamo altro, per contenere questa tendenza naturale, quando diventa dannosa per il nostro contesto sociale, studiare, ma nel senso di sospendere ogni tanto i giudizi istintivi e pensare sul pensato.
Ma questo non è per nulla facile.
Jean Paul Sartre: “Non basta volere, ma volere di volere”
L’esproprio di dati personali da parte del “capitalismo della sorveglianza” arriva fino ai dati costituiti da sentimenti ed emozioni per come appaiono nei brandelli di osservazioni video, rubati dalle videocamere dei nostri devices, a nostra insaputa. Il software di riconoscimento delle emozioni fu inizialmente progettato dalla start up Affectivia per fini buoni, come aiutare a riconoscere le reazioni degli autistici. Poi divenne di interesse commerciale. Influenzava il buonumore, così da essere più coinvolgibili. E questo tramite la classificazione di 12 stati emozionali che portano a 64 miliardi di miliardi di sfumature emozionali indipendenti riconosciute e agite dall’Intelligenza artificiale. Emozioni poi descritte minuziosamente in 60 secondi. Nessuno di noi potrebbe farlo di noi stessi.
In generale, questo esproprio restituisce la soddisfazione di desideri indotti di ogni cliente/utente, ma facendo nascere, con il tempo, la sensazione di non essere liberi, perché, parafrasando Sarte: “Vogliamo, ma non sappiamo se vogliamo di volere”.
Questa sensazione collettiva si riflette su quelle individuali e incide sulle fondamenta della riscoperta, dal rinascimento in poi, della libertà dell’individuo Quella, cioè, di avere un’esperienza, percepita come propria e autonoma, nella rielaborazione dell’esperienza personale, dandole un significato ed un senso proprio. Inevitabile quindi che le conseguenze siano una frantumazione del senso dell’esistenza.
La dolorosa ricerca di un senso per i nostri giovani
I nostri ragazzi, non vedendo negli occhi degli adulti un’esperienza piena di vero desiderio, né vedendo, nelle loro scelte, nessuna ragione profonda che avesse a che fare con il senso del lavoro (quello che ci fa comprendere l’utilità sociale della mansione, se esiste), si aggrappano a qualsiasi esperienza per ritrovare quel senso.
Dai casi più normali in cui i giovani abbandonano “il posto fisso” per esplorare alternative meno sicure, con relativa ansia dei genitori cresciuti in un’epoca jurassica rispetto a loro, a quelli più estremi in cui partono per diventare mercenari per la guerra di turno, magari a (finto) sfondo religioso. Naturalmente la differenza rispetto ai casi estremi la fa l’amore concreto e una stabilità di affetti. E non è poco. Ma un certo schema di fondo sembra simile.
Se ci sono software, chiamati intelligenza artificiale, che sono in grado di dirti cosa desidera il tuo sé, riproducendo poi un mondo che sia da specchio a questi desideri, deformato in relazione agli obiettivi di un impersonale cosiddetto “capitalismo di sorveglianza” (riflessioni fatte dagli stessi progettisti a Berlino nel 2016), allora si capisce, la sofisticata evoluzione delle dinamiche di questo sistema. Rendere, cioè, sempre e comunque le catene invisibili. L’importanza è non riconoscere queste catene. E, per farlo, oltre all’assuefazione e adattamento, le catene più efficaci sono quelle che danno godimento, nell’immediato, all’individuo.
Vengono in mente le prediche di alcuni adulti, ahimè spesso genitori, quando vedevano giovani che, con la droga, rovinavano la loro vita e, in primis, il senso della loro esistenza (il ricordo è di quel periodo nato dopo aver compreso che il mondo non si poteva cambiare, ma forse è un ricordo valido ancora oggi.)
Ma si sono mai chiesti, questi genitori, quale tipo di godimento immediato prova chi si assumeva eroina, ad esempio?
Un brano degli anni 70/80 ne riportava qualche brandello di queste emozioni. Riportava nel ritornello: “sweet mama fixed”. Più o meno una “dolce mamma nelle vene”, un ritorno alla piena integrazione del liquido amniotico. Una dolcezza estrema, una diluizione del tuo sè in quello che ti circonda. Nel momento, non esistevano più angosce o ansie. Il drogato, la mamma, il mondo erano tutt’uno. Certo altrettanto estreme sono poi le conseguenze, finito l’effetto. Ma quella predica incredula proveniva spesso da persone che di fondo, barattavano il senso per una tranquillità data da una vita prevedibile e utopisticamente certa. Difficile essere profondamente credibili. Qualche volta il messaggio che arrivava al giovane, era semplicemente la disperazione per la sofferenza di un figlio e il forte desiderio del genitore di non soffrire più, magari per ritornare alla propria vita, quella regolata da quel baratto.
Il capitalismo di sorveglianza, potremmo dire, per proseguire con questa similitudine, ha imparato la lezione dalla droga: sempre lasciare in vita, in buona salute possibilmente, l’utente / cliente. È una risorsa preziosa. L’importante è che non sia un ostacolo alle meravigliose sorti progressive, di questo sistema. E appare sempre più chiara una delle principali minacce dell’intelligenza artificiale: non è quella di diventare più intelligente dell’uomo e mandarci in pensione o persino eliminarci. Per quale motivo un “macchina” dovrebbe avere questo desiderio? Non ne ha di desideri autonomi, né buoni, né cattivi. Può benissimo rimanere una stupidità artificiale, per trasformarci tutti in strumenti altrettanto artificiali, a misura di questo mondo, sviluppato in questa direzione, da meccanismi antichi che, appunto, fatichiamo a riconoscere.
(8 ottobre 2022)
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